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PEN SPACE

Vale la penna

no borders (perchè in fondo, vedi, il confine è la parola fine)

Il tempo mi cresce dentro e addosso, mi trasforma.

È un viaggio da cigno a uovo e ritorno, sono stato rospo, girino e giglio, ma anche fiore sfiorito, albero, leone e poi coniglio.

Mi arrampico agli specchi, con la pazienza delle ventose e dei rampicanti, mi ci guardo e ricado al via.

Sbaglio sentieri e arrivo lo stesso, solo più stanco e affamato: perché vivere è anche lasciarsi perdere, ogni tanto. Ma anche rincontrarsi al bivio inaspettato di un amore nuovo, di una sfida, di una musica inconsueta.

È che la vita è il tuo bolero, quel passo di danza da inventare ballando e fingendo a volte orecchio esperto, piede franco e nessuna malinconia”.

Così spiegavo al mio piccolo branco, mentre alzavamo bicchieri speciali e spingevamo in buca le biglie di ogni sera. Eravamo invecchiati giocando.


Gianni Tregambe, uno di cui si diceva avesse un pacco mostruoso, posò la stecca e venne a sedersi rassegnato: nessuno aveva voglia di sfidarlo e ce ne stavamo lì a fumarci vita e vecchi ricordi come fossimo i ragazzi di un tempo.


Erano passati trent’anni e l’unica cosa che ancora non avevamo cambiato era la squadra del cuore: tutto il resto invece sì, compresi i desideri, il colore dei capelli e le automobili. Mirko era consigliere comunale, ma il partito non era quello per cui votava da ragazzo, quello si era trasformato in ectoplasma e ai più impegnati fra noi aveva lasciato solo vecchie bandiere e agende fitte fitte delle nostre illusioni.


La vita ci limava piano piano, qualcuno se lo era anche già portato via oppure lo aveva soltanto mandato in giro per il mondo per fare chissà che. Di Billy, ad esempio, sapevamo solo che ora stava in Paraguay, un cazzo di paese senza il mare intorno e per un siciliano come lui doveva essere stato come trasformarsi da granchio in ragno di foresta. E forse per questo ce lo eravamo del tutto perso.


Noi, decimati dalle correnti contrarie, ci eravamo spesi i sogni di gioventù in chiacchiere inconcludenti, cerchi di fumo e vaghe speranze di riscatto, ma ora si parlava solo di calcio e gnocca, in ossequio ai tempi vigenti. E non ci eravamo quasi mai mossi da quel buco di città, tre di noi non erano mai stai più in giù di Bologna e Gianluigi addirittura non aveva ancora mai visto il mare.


Io ancora scrivevo storie, a volte prendevo appunti sui tovaglioli di carta che poi perdevo tra le mille tasche. Qualcosa restava e al suo tempo poi si scriveva da sola e trovava la sua forma, adattandosi come il vino nei bicchieri.

Ne alzammo ancora diversi, quella sera.


Era il mio compleanno e venne facile a tutti sparpagliare ricordi: qualche bicchiere lo bevemmo a nome degli assenti, un prosit dopo l’altro da sei che eravamo fummo di nuovo una tribù. Si vive nella memoria degli altri, per un po’, appesi lì come vecchie foglie ingiallite finchè i venti della vita non ci portano via.

Quando nessuno ricorderà di noi, saremo veramente morti”, sentenziò Biagio, non per caso lo chiamavo Pascal. E ancora tra noi c'è chi pensa fosse un nome da gatto.

Siamo già morti tante volte”, risposi io, “ma siamo ancora qui. Anche se abbiamo sbagliato più rigori di Beccalossi”.

Seguì automatico un prosit all'Evaristo, campione degli sfigati e poi, come al solito, partì la serie dei paragoni con Baggio, Corso e Javier Zanetti. Uomini da Inter ne avevamo avuti tanti e anche in questo la vita ci volle interisti, gente che si gioca un campionato a parte in cui conta il raro gesto atletico ben più che solide vittorie. Lo eravamo tutti tranne Roberto, napoletano doc e quartoggiarese d’adozione. A quel punto lui calava l’asso immenso di Maradona e metteva d’accordo tutti.


Ci fu un silenzio improvviso quando dissi: “Vi ricordate Fidel”? Fidel, il sordomuto, era in carcere da ventidue anni e ancora ne aveva per altri tre.

Aveva ucciso un poliziotto, in una sera sbagliata pagata per l’eternità. Credeva di salvarci da un raid di fascisti e invece erano poliziotti in borghese, ma lui prima di rendersi conto dell’errore aveva vuotato la P38 sparando al buio come avesse gli infrarossi.

Non ci salvò dai rimorsi per non averlo saputo avvertire e ora eravamo lì a brindare anche per lui.

Finì la serata con il consueto groppo in gola, era così da anni. Perché in prigione ci erano finiti anche tanti sogni e tanti ideali, ma anche i nostri migliori anni. E sordomuti, un pochino, lo eravamo diventati anche noi.


Il tempo ci sfoglia come pagine di un libro mai scritto prima”, dissi io mentre infilavano giacche e cappotti e ciascuno ritornava alla cella del suo vivere quotidiano.

Ma era una fesseria detta per darmi le arie del poeta incompreso: da anni tediavo la compagnia con le mie insulse scritture, smozzicate e inconcludenti come le nostre vite.


Eravamo gente qualunque, schiava di mutui e bollette, quasi tutti vicini alla pensione. Spesso ci facevamo i conti in mano, imprecando come tutti verso il cielo e verso i governanti.


Mentre andavo verso casa pensai che al nostro tempo avevamo provato l'illusione di veder cambiare verso al mondo, ma forse eravamo soltanto caduti nell’universo sbagliato, accumulando ricordi e storie minime, niente che avesse il timbro della gloria.

Nessuno però li avrebbe saputi raccontare mai: io stesso ne avevo riempiti cassetti con frattaglie di parole, racconti e smetricate poesie.


La gran parte rimasero scritti sui mille tovaglioli di carta spiegazzati dei nostri tanti bar, macchiati di vino e non di sangue, come era stato fin lì delle nostre esistenze. Mi domandavo spesso se fosse quella condanna o fortuna.


Di quei tovaglioli pieni di storie balbuzienti ne salvai uno, tenuto in un cassetto tutto suo e trascritto e ritrascritto in bella copia, perchè parlava di te e di altre immani e fottutissime speranze.

E sai bene come sono fatto: sono lento a parlare, ma anche pigro e dove non riesco a dire vado cesellando senza un punto e a capo, mi perdo e mi ritrovo come avessi la memoria di un gatto.


Perdona allora se al racconto manca un finale: bicchiere su bicchiere, vedi, lo sto ancora soltanto sorseggiando.


E' il solo modo ormai che resta per tenerti al di qua della parola fine.


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