mA LA CASA DI CHI?
Qualche settimana fa sono inciampato di nuovo in un vecchio ricordo, protetto dall’imbrunire lilla della luce che sfumava dietro alle persiane di un pomeriggio stanco.
Appoggiato come un colombo sul cornicione, un pensiero sornione mi chiedeva con insistenza di tornare a prendere il volo. E questa volta non ho avuto cuore di impedirglielo.
Tra i boschi immensi dietro casa dei miei nonni resisteva coraggiosamente, a dispetto di intemperie decennali, un vecchio rimessaggio attrezzi che, nel tempo, si era trasformato in una vera e propria capanna. Lì, insieme agli amichetti dell’epoca, si passava il tempo fantasticando e progettando futuri scaleni.
Troppo grande per essere accogliente nella misura consona alla nostra età e troppo piccola per contenere i macchinari agricoli, la casupola ci intratteneva comunque con garbo e senza pretese. Sul prospetto principale si trovavano una porta cieca con catenaccio a chiavistello e una finestrella senza ante, divisa in quattro quadranti dai vetri azzurri e verdi. Al crepuscolo, sotto l’ombra smeraldo dei pini, essere là dentro con quel resto di luce che colava lenta trasformava ogni cosa in autentica magia.
Ed era buffo assistere al camuffamento che la luce architettava per le cose e i volti di chi stava al suo interno. In base alla potenza dei raggi che a fatica entravano obliqui, due quadranti ci potevano assicurare l’azzurra beatitudine dei putti ma altri due, una verde e precoce indigestione di dolcetti. La cosa più curiosa, però, era il tetto. Senza che abbia mai capito perché fu consumata tanta perizia per una costruzione così semplice, chi l’aveva costruita aveva realizzato una doppia capriatella con tanto di monaci nel centro.
Un piccolo capolavoro sorprendente di carpenteria, la firma certa di un maestro d’ascia anonimo.
Poi di colpo, il ricordo della casetta è scappato via, intrattenuto, come sapone tra le dita, e senza chiedere permesso è risalito lungo i prati e si è infilato in casa dei miei nonni.
Mentre le immagini si spogliavano della polvere del tempo, si è fatta sera mentre il ventre accorda borborigmi da provincia. Capisco che ho fame ma sono ancora impigliato allo spigolo dei mobili della cucina dei nonni.
Come le case della nostra infanzia che non si perdono mai, nemmeno quando non esistono più, mi ritrovo seduto al tavolo rettangolare, le mani poggiate sulla stessa tovaglia dagli anemoni svogliati, le posate perfette sopravvissute alla guerra, i bicchieri resi opachi dall’uso e molta pace. Tutto come allora.
Ripenso alla calvizie di mio nonno china sul piatto, che riluceva come una pentola, alla minestra che non finiva mai e pareva aumentare sotto il cucchiaio. Le poche parole del patriarca erano sempre indirizzate a mia nonna, pacati complimenti al cucinato e tutto si consumava nel silenzio unto della cucina dove i pensieri colavano grassi sulla pelle delle domeniche invernali.
E d’un tratto il ricordo si inceppa e cede alla necessità di nutrirsi. Mentre mi sfamo senza allegria, sfoglio una rivista entrata in casa senza che sappia spiegarmi come. Tra le decine di amene idiozie, una pagina mi sferra un gancio a tradimento: è la pubblicità di una cuccia e in qualche modo, per un attimo, rivedo la casupola di poco prima. Annoto l’indirizzo e in rete faccio l’ordine senza farmi troppe domande. Comprata in un batter d’occhio.
Ho dovuto attendere qualche giorno e confesso che avevo furia di vederla montata, ma oggi è diventata la residenza invernale del mio coinquilino domestico e vederli insieme mi fa languire il cuore.
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